
Luzai: "Per me, fare musica è un atto politico"
Intervista alla cantante di "Estranea"
03 Giugno 2025
Se ancora non la conoscete, fareste bene a recuperare. Luzai è un'artista emergente che ha annunciato da poco il suo primo EP per Asian Fake, che si intitola "Estranea" ed è disponibile su tutte le piattaforme digitali. Giovane, ambiziosa e con le idee chiare, Luzai vuole farci ballare trasportandoci in una nuova dimensione, ma senza mai dimenticare il suo vissuto personale e il mondo che la circonda. Ci siamo fatte raccontare da lei cosa significa questo EP, a partire dal titolo.
Intervista a Luzai
"Estranea" è il titolo del tuo primo EP per Asian Fake. Cosa significa per te questa parola? Si tratta in qualche modo di una riappropriazione?
Sì, "Estranea" è un titolo che è arrivato dopo un po’ di tempo. All’inizio facevo fatica a dare un nome all’opera, forse perché non era ancora completa e io cercavo già di definirla. Ma sarebbe stato impossibile: mancavano ancora gli elementi per comprendere davvero cosa stessi raccontando. Molto spesso, almeno per me, il senso profondo di un’opera si svela solo dopo averla creata. "Estranea" è una parola che ho voluto ribaltare. È un termine che negli anni mi è stato cucito addosso da altri. Usarlo come titolo è stato un modo per riprenderne possesso, per attribuirgli un significato, mio. Questo EP non parla direttamente di estraneità, ma racconta la mia esperienza come donna nera italiana. Racconta delle difficoltà vissute, delle fratture identitarie, e anche della mancanza di riconoscimento formale - perché oggi non si tratta più solo di appartenenza culturale, ma di diritti veri e propri. In ogni traccia c’è un frammento di questa storia: non una spiegazione, ma un racconto emotivo e corporeo di ciò che ho vissuto. Estranea era il titolo perfetto: racchiude tutto questo.
Il tuo progetto fonde elettronica, identità, desiderio e resistenza. Come hai costruito questo equilibrio tra suono e contenuto politico?
In realtà non è stato qualcosa di premeditato. Credo sia nata da un’esigenza profonda, che in fondo ho sempre avuto, perché fa parte della mia esperienza. L’incontro con Federico Dragogna, che è entrato nel progetto nella fase finale di scrittura è stato importante. Mi ha ascoltata, mi ha aiutato ad aprirmi. I nodi sono venuti a galla naturalmente. Quando ci siamo visti per la prima volta, avevo già i testi pronti - le cinque tracce che poi avrebbero composto l’EP. Ma c’erano delle cose, dette ancora sottovoce. Così, abbiamo iniziato a sventrare quelle parole vive che avevo dentro da tempo. Quindi in realtà quel contenuto politico era già lì, solo che non lo avevo ancora riconosciuto come tale o fino a quel momento non avevo avuto la forza di ritiralo fuori in questa maniera. Era nascosto nei miei pensieri, nelle note scritte in tram e di notte. Per me fare musica comunque è un atto politico. Esistere nel mio corpo è un atto politico. E credo che l’elettronica lo sia in modo particolare. È anche il motivo per cui mi sono avvicinata a questo tipo di suono, e per cui ho iniziato a produrre. È un linguaggio che nasce ai margini, come me, da comunità che hanno sempre dovuto rivendicare spazio e visibilità. Se pensiamo alla techno di Detroit, per esempio, lì c’è già tutto: l’urgenza, la resistenza, l’utopia. L’elettronica è corpo, è movimento, ma è anche dissenso, possibilità, trasformazione. In questo progetto mi sono sentita libera di unire il ballo, il corpo e il desiderio con un messaggio che per me è necessario. È stato un atto di verità.
La traccia "Notte" è una meditazione elettronica e un'ode alla trasformazione. Cosa rappresenta per te il buio in questo brano e nel tuo percorso personale?
"Notte" è una canzone che parla alla Mae di un tempo. Le dice che, anche se ancora non lo sa, un giorno capirà di cosa è capace. È come se la me del futuro tornasse indietro, nel cuore della notte, per rassicurarla, per mostrarle chi è davvero. C’è questa frase nel pezzo che per me è centrale: "Tornerei nel pieno della notte per farti vedere come sei". È una promessa di luce, e un atto di cura. Per tanto tempo mi sono sentita esclusa, invisibile. E quella sensazione, quando ti accompagna a lungo, finisce col farti dubitare persino del tuo potenziale. "Notte" è il mio modo di rispondere a quella voce interiore che per anni ha messo in discussione il mio valore. È un gesto di amore verso la mia bambina interiore, verso quella parte di me che ha attraversato il buio senza sapere se ci sarebbe stata un’alba. Il buio, in questo brano e nel mio percorso, rappresenta proprio quei momenti lì. I momenti in cui ho sudato, lottato, taciuto. E non parlo solo in senso metaforico. Le vite delle persone con un background migratorio, in Italia, sono spesso più complesse. Parlo di mancanze concrete: diritti negati, cittadinanze non concesse, esclusioni silenziose che iniziano a scuola e proseguono nella vita adulta. Penso al momento della maggiore età, che per molti dovrebbe essere un passaggio importante, un’occasione per usare la propria voce anche solo attraverso il voto. Ma per alcune persone questo diritto non è scontato. La burocrazia, l’attesa, il sentirsi costantemente "ospiti" in una casa che è anche la tua. Tutto questo lascia segni. "Notte" è una meditazione su tutto questo. È il mio modo di abbracciare il buio, riconoscerlo, e trasformarlo. Non per cancellarlo.
Hai descritto il tuo corpo come mezzo narrativo e territorio politico. Quanto conta la corporeità nella tua musica e nei tuoi live?
La corporeità per me è centrale. Sono una persona profondamente creativa, e questa creatività si esprime in molti modi: nella musica, certo, ma anche nella danza, nella scrittura, nella moda. Il corpo è uno strumento attraverso cui posso far dialogare tutte queste dimensioni. Per questo integrare le mie passioni nel mio progetto è qualcosa di naturale, quasi inevitabile. Durante i live, il corpo diventa veicolo di relazione. Per me il momento del live è uno spazio di coincidenza, di incontro con chi ascolta. A volte suoni davanti a persone che ti conoscono, altre volte no, ma in entrambi i casi sento il bisogno di comunicare in modo diretto, autentico. Spesso cerco il contatto visivo con il pubblico, mi avvicino, perché mi fa sentire più a mio agio, più presente. È un modo per abbattere la distanza e ricordare che siamo tutti parte dello stesso spazio, anche se solo per mezz’ora.
Nel tuo EP parli anche di appartenenze frammentate e memoria familiare. Quanto ha influito l’esperienza di essere cresciuta in Italia da genitori immigrati sul tuo linguaggio musicale?
Essere cresciuta in Italia da genitori immigrati ha influito tantissimo sul mio linguaggio musicale. Lo ha fatto in modo naturale, perché quando scrivo parlo della mia vita. Non potrei fare altrimenti. Racconto le mie esperienze, le fratture identitarie, la memoria familiare, le tensioni vissute tra appartenenze diverse. A livello sonoro vorrei osare di più, esplorare dimensioni che raccontino meglio anche il mio background. È qualcosa che sento dentro, ma che voglio affrontare con cura, con una ricerca consapevole alle spalle. So che voglio tornare in Camerun molto presto. Non solo per cercare, ma proprio per trovare suoni, storie, energie che appartengono alla mia radice, e capire come possano entrare nel mio linguaggio musicale in modo vero, sentito. Non so ancora esattamente cosa ne verrà fuori, ma so che sarà un passo importante.
Dal MI AMI al Live Rock Festival: sei in tour in tutta Italia. Che tipo di esperienza vorresti far vivere al pubblico durante i tuoi concerti?
Vorrei che il mio live fosse uno spazio sicuro, queer, nero, espanso. Un luogo dove le identità non si difendono, ma si celebrano. Dove l’energia è gentile ma potente.
Da chi o da cosa trai ispirazione? Ci sono figure, musicali o meno, che ti hanno aiutata a definire la tua voce e la tua estetica?
Beh sì, sicuramente una delle figure più importanti per me è stata Arca. Oltre a essere una rivoluzionaria in tutto e per tutto, per me è stata quasi una madre artistica. Una delle prime persone da cui ho visto una libertà totale, dalla produzione musicale al palco. Ma forse è una libertà che va oltre la musica, che è corpo, visione, trasformazione. Poi Eartheater, Saya gray, Rosalia. FKA twigs anche è stata una fonte di ispirazione fortissima — non solo dal punto di vista estetico ma anche musicale. Amo il suo coraggio, la sua capacità di sperimentare senza mai omologarsi, di stare fuori dagli schemi pur restando profondamente autentica. Sevdaliza è un’altra figura che sento molto vicina. Ho sempre empatizzato con il suo modo di raccontare, con la forza politica dei suoi messaggi, con la sua intensità. La trovo davvero iconica. E poi c’è Doechii, che in realtà non c’entra nulla con la mia musica, ma per me è stata incredibile. Il modo in cui ha condiviso la sua esperienza attraverso il journaling su YouTube mi ha toccata profondamente. La trovo una donna straordinaria. Nell’ultimo anno mi ha dato tanta forza, tanta fiducia in me stessa, anche solo attraverso il suo modo di essere, di raccontarsi.